Il momento dell’alimentazione ha sempre assunto per l’uomo significati che sono andati ben oltre la funzione nutritiva.
Non esiste situazione più complessa, per le sue implicazioni sociali, religiose, psicologiche, di quella alimentare; la nostra specie ha infatti trasformato il bisogno primario di nutrirsi in un’occasione di scambio e di relazione. Inoltre, a differenza degli altri esseri viventi, attenti a difendere il cibo da predatori, gli esseri umani amano mangiare in gruppo: condividere il momento del pasto è un’istituzione culturale profondamente radicata, un’abitudine ricca di significato, in cui si possono rintracciare regole, riti e usanze. Cibo e alimentazione in questo contesto rivestono una ampia moltitudine di significati, è facile rendersi conto di quali implicazioni psicologiche possono essere veicolate.
L’attenzione al corpo, alle sue forme e al peso è un fenomeno psicologico, affettivo, sociale e culturale che ha contraddistinto in modo particolare la storia del mondo occidentale degli ultimi decenni. Utilizzare il corpo per esprimere un disagio psicologico attraverso comportamenti alimentari disfunzionali che possono assumere anche connotazioni patologiche è ormai una tendenza, una realtà sempre più diffusa nella società in cui viviamo, tanto da essere considerata una vera e propria emergenza in ambito sia sociale che sanitario.
Queste nuove forme di disagio psicologico, che si collocano lungo un continuum che vede ai due estremi la magrezza estrema oppure l’obesità, si inseriscono in un contesto sociale che mostra non poche contraddizioni: da un lato, infatti, l’immaginario del prototipo di donna ideale è sottoposto a una profonda rivoluzione, spostandosi verso una sempre maggiore esaltazione della magrezza e dall’altro l’alimentazione si è fatta più ricca e abbondante, con un continuo invito ad eccedere.
I disturbi dell’alimentazione e della nutrizione sono definiti e classificati dall’American Psychitaric Association nella quinta edizione del Diagnostic and Statical Manual of Mental Disorder (DSM V) come persistenti disturbi del comportamento alimentare e/o comportamenti finalizzati al controllo del peso che danneggiano la salute fisica e il funzionamento psicosociale e che non sono secondari a nessuna condizione medica. È importante sottolineare che i disturbi del comportamento alimentare (DCA) condividono tutti lo stesso nucleo psicopatologico: la tendenza a giudicare il proprio valore in modo esclusivo in termini di peso e di forma del corpo.
Nella pratica clinica è molto difficile imbattersi in forme così dette pure, poiché tali disturbi tendono a persistere nel tempo e a migrare da una forma all’altra della stessa categoria diagnostica.
Anche l’organizzazione mondiale della sanità sottolinea l’importanza dell’argomento, nel suo rapporto ufficiale evidenzia come nei paesi industrializzati ogni 100 ragazze in età di rischio (12-15 anni), 10 soffrono di qualche disturbo del comportamento alimentare, 1-2 nelle forme più gravi. Si tratta di patologie gravi che possono avere un decorso prolungato e tendere alla cronicizzazione (20-30%). Frequentemente questi disturbi si manifestano in comorbilità con altri disturbi psichici (30-50% disturbi d’ansia, depressione, dipendenze) e presentano, in particolare per quanto riguarda l’anoressia nervosa, un indice di mortalità molto alto (5%) che ne fa la seconda causa di morte fra le adolescenti dopo gli incidenti stradali e la prima tra le patologie psichiatriche.
L’anoressia ha un’incidenza stimata di 8 nuovi casi ogni 100.000 donne in un anno, mentre la bulimia nervosa di 12 casi per 100.000 donne in un anno. Negli studi clinici condotti, i maschi rappresentano il 5-10% dei casi di anoressia, il 10-15% dei casi di bulimia e il 30-40% dei casi di binge eating disorder.
Le cause
Data la rilevanza, dal punto di vista sociale e sanitario, di questo quadro clinico, la letteratura scientifica che si occupa di indagare questa tematica si è interrogata riguardo le potenziali cause di esordio e di mantenimento di un disturbo tanto invalidante e ha messo in evidenza il coinvolgimento di specifici fattori biologici, ambientali, culturali e comportamentali nell’incrementare il rischio di sviluppo del disturbo. La stessa letteratura pone in luce inoltre, come i problemi di obesità abbiano spesso origine durante l’infanzia. Frequentemente questi soggetti iniziano ad utilizzare il cibo e l’alimentazione come forme di autocura e di autoregolazione per fronteggiare eventi di vita particolarmente avversi, soprattutto nei primi 18 anni di vita, e il disagio psicologico da essi generato.
Indagando i fattori di rischio di origine traumatica nell’esordio dei disturbi del comportamento alimentare è emersa un’associazione importante tra abuso sessuale e anoressia nervosa e bulimia nervosa. Nonché un’associazione tra abusi sessuali, fisici, psicologici e trascuratezza durante l’infanzia e comparsa di condotte bulimiche e di eliminazione durante il corso della vita. I soggetti che durante l’infanzia hanno vissuto tali abusi hanno un maggiore rischio di sviluppare questa patologia. Ognuna di queste esperienze traumatizzanti ha un forte impatto negativo sullo sviluppo psicologico, cognitivo ed emotivo di questi bambini che possono mostrare notevoli difficoltà nella regolazione delle emozioni e una maggiore incidenza di disturbi psicologici durante la loro vita.
Gli studi condotti hanno mostrato come i soggetti con disturbi del comportamento alimentare avevano una probabilità significativamente maggiore di aver sperimentato, nel corso dei primi anni di vita, traumi ripetuti interpersonali.
Le esperienze traumatiche che forniscono le basi per la futura patologia vengono registrate e conservate all’interno del sistema mnestico in una forma non elaborata, insieme all’emozione ad essa collegata, alle sensazioni fisiche e alle credenze negative irrazionali a essa legate.
Il ruolo delle esperienze sfavorevoli infantili, i traumi relazionali, i traumi dell’attaccamento e gli eventi di vita traumatici sono ampiamente riconosciuti come fattori di rischio per lo sviluppo di questa patologia così come sottolineato anche dal DSM V.
Tra i fattori di rischio ambientali per i disturbi alimentari il DSM V riporta: situazioni di vita stressanti e problemi nella relazione genitore – bambino; l’interazione genitore – bambino può contribuire ai problemi di nutrizione del bambino o aggravarli. Ci potrebbe essere inoltre coesistenza di psicopatologie nei genitori, ansia familiare, eventi di vita stressanti, condizioni interpersonali stressanti che aumentano il rischio di sviluppare disturbi del comportamento alimentare.
La terapia
Appare pertanto fondamentale individuare un metodo psicoterapeutico che intervenga direttamente su tali esperienze traumatiche precoci, per consentire l’elaborazione e la risoluzione adattiva, andando così a intervenire in modo diretto sui fattori di rischio alla base dell’insorgenza e del mantenimento del disturbo stesso.
Il trattamento di queste patologie risulta sempre abbastanza complesso e articolato, per questo è importante fare riferimento a un approccio evidence-based centrato sul trauma e ampiamente riconosciuto dalla comunità scientifica come l’EMDR (eye movement desensitization and reprocessing) che
agisce sulle esperienze che sono alla base delle patologie e disfunzioni alimentari. Ad oggi l’efficacia dell’EMDR nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare è stata ampiamente dimostrata da numerosi case study. È necessario utilizzare un metodo psicoterapeutico che intervenga sulle esperienze traumatiche, noti fattori di rischio; è importante fare riferimento ad un metodo evidence based riconosciuto a livello internazionale e garantito dall’OMS. L’EMDR ha queste caratteristiche e viene applicato in ambito psicoterapeutico per risolvere le conseguenze di eventi traumatici che sono spesso alla base di diverse psicopatologie.
Dr. Antonello Melis
Psicologo • Psicoterapeuta
Cagliari